La morte di Citati, i libri per le vacanze e la mia Grecia: il racconto della settimana - Tag43

2022-07-30 13:49:05 By : Ms. yocan yuki

Mentre sorseggio un bloody mary con Sofia vibra il cellulare. Il giornale mi comunica la scomparsa di Pietro Citati. La mia unica reazione è scolarmi il resto del cocktail. Domani parto per la Grecia con Ofelia. E non riesco a scegliere i libri da infilare nel trolley. Il racconto della settimana.

Martedì. In agenzia. Eccoci qui, per l’ennesimo martedì di merda a 40 gradi, in un momento storico in cui Milano probabilmente è la cosa più simile all’inferno che ci possa essere sul pianeta Terra. Sono arrivato all’appuntamento in Mad Agency, a Casa Campanini, in via Bellini 11, con circa 45 minuti di ritardo, a bordo della mia Rossignoli color blu diplomatico e con sparato al massimo, in cuffia, l’ultimo disco mega-rap di Jake La Furia. Indosso un paio di short blu della Nike cortissimi e una maglia oversize targata La Belle Margiela, eredità della sfilata del settembre scorso che Martin Margiela ha fatto alla Belle Aurore. Ai piedi ho un paio di costosissime Nike marchiate Jun Takahashi, che con la sua leggendaria crew di runner ribelli GIRA (Gyakusou International Running Association) ha rivoluzionato il mondo dello street urban e che ho comperato la scorsa primavera al Nike Lab del Marais a Parigi, e ovviamente ho su anche gli immancabili RayBan Wayfarer che ormai indosso tutto il giorno, costantemente, e mi tolgo solo dopo le sette di sera. Perché sì, i giovani e ribelli creativi delle agenzie di comunicazione oggi si vestono così e io, anche se non sono un creativo né tantomeno giovane, posso fare quello che voglio perché, nonostante tutto sulla carta d’identità ho ancora scritto la parola disk-jockey e, si sa, a noi deejay è concesso tutto, a prescindere dall’età.

La riunione è capeggiata da un tipo in completo grigio D&G che a metà del discorso, forse inibito dall’ambiente giovane ribelle e creativo, si è tolto la giacca, si è arrotolato le maniche della camicia e si è annodato la cravatta in testa a mo’ di kamikaze

Come ho già scritto la Mad Agency è del mio amico Ale Cash, che però oggi non è in ufficio ma a Forte dei Marmi, che noi milanesi da sempre chiamiamo confidenzialmente Forte, per seguire un evento di una nota marca di jeans, che si terrà stasera in uno degli stabilimenti balneari più chic della Versilia. Così mi trovo qui, in un ufficio pieno zeppo di giovani ribelli creativi, vestiti dalla testa ai piedi da giovani ribelli creativi, ed è un proliferare di Carhartt, Gucci, Burberry, Evisu, Billabong mixati sapientemente con una serie di introvabili sneaker di ogni tipo, che vanno dalle Nike vintage alle Converse multicolore e proseguono con una serie di stilosissime Adidas che non credo di aver mai visto prima. La cosa che mi piace di più qui in Mad è che il palazzo, di ultra rappresentanza, sembra fatto apposta per ospitare gli uffici di prestigiosissimi e costosissimi avvocati o notai e invece nelle stanze ci si sente come catapultati in qualche loft delle mega compagnie digitali di Frisco o della Silicon Valley dove pezzi di design ultra pregio sono mescolati ad arte con elementi street di tutto rispetto come vetrine piene di Air Jordan e statuette di Kaws o per esempio a minuscoli tavoli della Chicco, come quello attorno a cui siamo seduti tutti in questo momento.

La riunione è capeggiata da un tipo in completo grigio Dolce & Gabbana che a metà del discorso, forse inibito dall’ambiente giovane ribelle e creativo, si è tolto la giacca, si è arrotolato le maniche della camicia e si è annodato la cravatta in testa a mo’ di kamikaze. Le parole d’ordine sono viral marketing, subliminal advertising e naturalmente guerrilla marketing e già dopo 10 minuti capisco che sono stato contattato principalmente per tre motivi: uno perché le famose e potenti agenzie di comunicazione ultimamente si avvalgono sempre più spesso di gente tosta e versatile come me per produrre contenuti da condividere in campagne pubblicitarie o sui social network (gente che arriva dai giornali di carta e dalle radio FM per esempio), due perché sono in grado di scrivere fluentemente in italiano e tre, motivo principale, perché Ale Cash mi vuole molto bene. «Una volta ad un ragazzo che lavorava qui che si trasferì in un’altra importante agenzia chiesero quale fosse la differenza tra lavorare in Mad o da un’altra parte», mi disse un giorno Ale Cash, «lui rispose che la differenza era che nelle altre agenzie si lavorava, in Mad si provava a sognare».

Saluto Micol, senza baci e mentre attraversa la strada prima di rinfilarmi le cuffie sono quasi tentato di chiamarla e dirle che se vuole, in Rete, può trovare il resoconto dettagliato della volta che me la sono scopata. Alla fine però decido di soprassedere. In fondo, come diceva quel tale, sono un pirata ma pur sempre un signore

Finita la riunione mentre sono diretto verso il turno diurno alla Belle Aurore, in sella alla mia Rossignoli color blu diplomatico e sono fermo a un semaforo che incrocia corso Venezia per cambiare musica sull’iPhone, a un certo punto, mi sento battere una mano sulla spalla. Non posso credere ai miei occhi quando alzo lo sguardo, tolgo le cuffie e riconosco il volto sorridente di Micol. Micol, la stessa ragazza di cui ho parlato settimana scorsa nella mia rubrica di racconti su Tag43, a cui non penso mai e che forse non vedevo da circa 12 anni. Resto senza parole non tanto per lei quanto per l’assurda coincidenza astrale che me l’ha fatta incontrare proprio oggi, proprio pochi giorni dopo l’uscita del pezzo. «Ehi ciao, come stai?». «Io sto bene e tu? Ti vedo in forma. Cosa fai ancora a Milano con questo caldo?». «Eh, vado in ferie alla fine della settimana. Sono sette anni che lavoro da Valentino. Social media manager». «Ma è fantastico, bella». «E tu, cosa ci fai qui?». «Torno da una riunione, e sto andando a lavorare, sono di turno alla Belle Aurore». «E la radio? La fai ancora?». «Bè, sì», mi stringo nelle spalle. «Divertente, no?». «Si, divertente, diciamo». «Abiti ancora in quella strana casa in Via Tiepolo?». Poi ci salutiamo, senza baci e mentre attraversa la strada prima di rinfilarmi le cuffie e far partire l’ennesimo pezzo tratto dall’ultimo disco mega-rap di Jake La Furia sono quasi tentato di chiamarla e dirle che se vuole, in Rete, può trovare il resoconto dettagliato della volta che me la sono scopata. Alla fine però decido di soprassedere, perché in fondo, come diceva quel tale, sono un pirata ma pur sempre un signore.

Giovedì. Aperitivo con Sofia. Oggi sono in giro per spese e anche se in tutto ho già 37, anzi 38, paia di Nike, ne cerco un altro modello, senza successo, prima nel nuovo negozio di corso Buenos Aires, poi in quello di corso Vittorio Emanuele. Successivamente passo da Serendeepity a prendere due vinili: il nuovo dei Nu Genea, Bar Mediterraneo e un altro, strepitoso, di funk napoletano di una riesumata band lucano-partenopea Anni 80 che si chiama Little Italy, distribuito da un’etichetta parigina che non ho mai sentito nominare. Alle sette arrivo, a bordo della mia Rossignoli color blu diplomatico, al Chiosco Mentana dove ho appuntamento con Sofia, appena rientrata a Milano ma già in partenza, che voglio assolutamente salutare. Come scrive Zero, «ben asserragliato dai bamboo e dalle fresche frasche, illuminato da paralumi di carta e lucine romantiche, il chiosco di piazza Mentana è specializzato nei mojito e nei cocktail preparati con frutti esotici». E in effetti è davvero così e se sei fortunato, ogni tanto all’aperitivo, servono tartine di pesce del Costa Rica. Un tempo baretto volante, ora è un’oasi per antiquari, giovani notai o avvocati da quattro soldi. Ovviamente sono tutti abbronzatissimi e tutti indossano friulane multicolore, bermuda e camicie di lino, il che fa risultare il chiosco di piazza Mentana un brutto mix tra il Sabot di Santa e il Jamaica in Brera. Penso a questa e ad altre amenità osservando con noncuranza il culo della cameriera quando sento: «Ciao!». Alzo gli occhi: «Sofia!». È abbronzatissima e indossa una canotta bianca, dei pantaloni kaki e un paio di Birkenstock, esattamente identiche a quelle di Ofelia e esattamente dello stesso modello di quelle che ho comperato per me on line la settimana scorsa. Ci baciamo pudicamente sulle guance.

Sofia ha 21 anni e il motivo per cui son qui non è squisitamente sessuale, come molti di voi potrebbero pensare, ma per un miscuglio di sensazioni strane che questa ragazzina mi provoca, prima su tutte il fatto che in qualche modo mi ricorda me quando avevo la sua età

«È molto che aspetti?». Mi chiede. «No, sono appena arrivato, tranquilla». Le sorrido, mentre la squadro. «Che fai? Mi squadri?». Sorrido di nuovo. «Come stai?», mi domanda. «Sto letteralmente a pezzi. Mi sento tipo come una di quelle macchine di Formula 1 che alla fine del GP arrivano tutte rotte… con le gomme a brandelli, l’alettone staccato… una roba del genere». Poi ordiniamo un bloody mary per me e un gin tonic per lei e iniziamo a parlare del più e del meno. Sofia ha 21 anni e il motivo per cui son qui non è squisitamente sessuale, come molti di voi potrebbero pensare, ma per un miscuglio di sensazioni strane che questa ragazzina mi provoca, prima su tutte il fatto che in qualche modo mi ricorda me quando avevo la sua età. Per la sfrontatezza, per l’atteggiamento gangster e per altre schiccherie del genere. Con Sofia ci siamo conosciuti a febbraio in treno, mentre tornavo da San Remo dopo una diretta per la radio e quel giorno mi è rimasto particolarmente impresso perché era il giorno del derby, perché è stato il giorno che ho incontrato casualmente Allegra dopo una vita che non la vedevo. E soprattutto perché, quel sabato mattina, fu il giorno in cui morì mio padre. «Non hai la tua solita borsa Adelphi oggi? Mi chiede. «No, oggi no. Ho questa di un bar di fighetti che si chiama Palinuro. Un posto specializzato in vino naturale», le rispondo. «Fighetti come te, insomma». «Molto di più bimba. Se possibile tremendamente di più. Gente da Rivista Studio, per intenderci». «Cos’è Rivista Studio?». «Bingo! Risposta esatta. Uno dei motivi per cui ti adoro è esattamente anche per risposte come questa», le dico, e poi aggiungo: «E senti, dimmi, il tuo fidanzato superstar come sta?». «È molto preso da questa storia della barca ultimamente», mormora Sofia. E per un istante il suo sguardo si fa assente, malinconico. Perché si, per chi non lo sapesse, Sofia, studentessa 21enne alla facoltà di legge della Cattolica (e la cui famiglia possiede mezza Puglia), è anche la fidanzata ufficiale di Ghali, ultimamente salito alla ribalta delle cronache, oltre che per la sua musica, per aver comprato una barca (che ha chiamato Bayna, come il titolo del brano che apre il suo ultimo disco), che ha donato a Mediterranea Saving Humans, una ong che opera nel Canale di Sicilia salvando le vite degli immigrati che tentano la traversata dalle coste africane all’Italia. «Bè, dai», le dico. «Questa storia della barca è una vera figata. La trovo una delle cose più Rap che possano esistere. È stato un grande, il tipo», sussurro, di rimando. Poi l’atmosfera viene rovinata dalla vibrazione del telefono ed è quando mi accorgo, ispezionandomi il polso, che sull’Apple Watch è apparso il numero del giornale, che mi rendo conto che poco fa mi è arrivato un messaggio che mi comunicava la scomparsa di Pietro Citati. La mia unica reazione è di scolarmi il resto del bloody mary.

Sabato. In partenza. Il tavolo della sala è pieno zeppo di roba. Dozzine di tulipani, occhiali da sole, quotidiani sparsi dappertutto. Mucchi di soldi stranieri e bottiglie vuote di Bollinger ingombrano gli scaffali. Per terra un grosso trolley rosso è già chiuso, pronto per essere imbarcato. Sul divano un libro di Lawrence Osborne con la copertina gialla, naturalmente Adelphi, ha al suo interno come segnalibro una foto in bianco e nero di Ofelia che seminuda attraversa nell’indifferenza generale l’aeroporto della Malpensa. Avrà sì e no 19 anni. In cucina la colazione già preparata: le brioche di Sissi, una moka di caffè, una spremuta di pompelmo rosso rubino. Quando Ofelia esce dal bagno, con un morbido asciugamano bianco Ralph Lauren avvolto intorno ai fianchi, mi trova spaparanzato in mutande sul divano intento a guardare Tenet senz’audio sul grosso schermo dell’iMac in totale catalessi. «Oddio Andrew, sei ancora messo così? C’è un aereo che dobbiamo prendere». «Speravo in una tenaglia temporale. Ma fa niente», le dico. Poi mi alzo, mi avvicino e le do un bacio sul collo, sussurrandole all’orecchio: «Sei una stella». «Sì, però adesso muoviti». «Amore… ». Mi raddrizzo. «Sulla valigia lo sai non ho avuto problemi, ma per i libri da portare in vacanza sono assolutamente in crisi. Oggi poi è un anno che è morto Calasso. Ieri è morto Citati. A proposito, hai letto il mio pezzo sul giornale di oggi?». Dopo 10 minuti di silenzio o forse due Ofelia dice: «Ti devi muovere, altrimenti ti lascio qui». «Amore, gli Adelphi sono i Prada dei libri, gli oggetti più instagrammabili del mondo. Devi assolutamente aiutarmi a farli entrare in valigia. Ne ho scelti solamente nove». Si gira lentamente a guardarmi. «Andrew, hai già 5 kg di libri». «Sì, ma come faccio a partire senza un Chatwin, un Fermor, un Bolano, un Burroughs? E poi volevo infilare Grossmann, Gadda, quel tale italiano che hanno presentato allo Strega. Cosa che tra l’altro Calasso non avrebbe mai fatto». «Andrea…». «Facciamo l’amore, sussurro. «Muoviti, dobbiamo partire! Ti lascio qui».

Con Ofelia affittiamo da anni una casa spartana, tre camere e un piccolo giardino, in una zona leggermente defilata dell’isola e trascorriamo la maggior parte del tempo stesi sulla spiaggia sotto il sole a leggere durante la giornata o a mangiare pesce fresco la sera in un piccolo ristorantino sul molo. Non serve nulla a Halki

Colonizzata da anni da un manipolo di inglesi upper class e rifugio di velisti, miniatura di Symi, con le belle archontika, le case dei capitani, dal frontone neoclassico la nostra isola dispersa nell’Egeo, dove stiamo per dirigerci, si chiama Halki. Non circolano macchine, ci si muove rigorosamente a piedi e per la sua immensa tranquillità ultimamente è diventata buen retiro di scrittori e poeti a caccia di ispirazione. Con Ofelia affittiamo da anni una casa spartana, tre camere e un piccolo giardino, in una zona leggermente defilata dell’isola e trascorriamo la maggior parte del tempo stesi sulla spiaggia sotto il sole a leggere durante la giornata o a mangiare pesce fresco la sera in un piccolo ristorantino sul molo. Non serve nulla a Halki. Qualche maglietta, due paia di bermuda, un pigiama e al massimo una serie di coloratissimi e ultra tecnici costumi da bagno da surfista. Perché in fondo, come recitava un recente slogan di successo: “Greek Summer is a state of mind”. «Arrivo amore, arrivo. Mi muovo!».

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