Bentornata estate: ecco le spiagge del cuore dei Lettori - La Gazzetta del Mezzogiorno

2022-07-02 01:59:21 By : Mr. Damon Liang

Ecco una serie di ricordi dei nostri Lettori che hanno risposto all'appello della Gazzetta per raccontare la loro spiaggia del cuore.

Serra degli Alimini, anni 80 e poi oggi. Ancora. E mille ricordi, giovinezza vissuta tra i colori dell'acqua , della sabbia nera, della verdissima macchia mediterranea.

Riva dei Tessali, Castellaneta Marina: lunghe passeggiate, prime cotte e prime sbornie. I ricordi degli anni' 90 restano indelebili.

Bentornata estate: raccontateci la vostra spiaggia del cuore Scriveteci una email che descriva qual è la spiaggia dei vostri ricordi a redazione.internet@gazzettamezzogiorno.it

Bentornata estate: raccontateci la vostra spiaggia del cuore

“Dove andrai in vacanza?” La classica domanda ha sempre avuto per me una risposta d’obbligo: mare, mare e ancora mare. Non sarebbe potuto essere altrimenti visto che mio padre, ancor prima di assicurare un tetto cittadino alla famiglia, pensò di acquistare una casa per le vacanze. All’epoca, parlo dei primi anni ’70, in Capitanata si distinguevano due fazioni: una propendeva per le emergenti mete estive come Francavilla o Silvi Marina, in Abruzzo; l’altra, individuava nel Gargano il luogo ottimale dove trascorrere le ferie. Complici ricordi di gioventù, il cuore del mio amorevole genitore, scelse San Menaio come buon ritiro. La frazione di Vico del Gargano, in una manciata di anni, si era trasformata da sonnacchioso borgo marinaro a vivace sito vacanziero. Le famiglie ne apprezzavano l’aria di mare che, combinata a quella resinosa di Pineta Marzini, aveva fama di essere quanto di meglio per irrobustire i bambini. I miei primi ricordi risalgono a quando, avevo circa cinque anni, lo stretto arenile che corre da Rodi Garganico fino a Calenella, era punteggiato da un numero esiguo di ombrelloni che il proprietario dell’unico lido, “Il Bar Centrale”, affittava ai bagnanti. Come molte, anche la mia famiglia trascorreva intere giornate in spiaggia, portando seco anche il pasto: panini con la frittata o salumi, profumate pesche e angurie ghiacciate venivano consumati e condivisi con i vicini d’ombrellone. La domenica, all’ombra delle cabine, si imbandiva una tavola improvvisata ma ricca di caloriche pietanze: lasagne, pasta al forno con le polpettine, parmigiana e cotolette, preparate al mattino di buon’ora, erano immancabili. Rivedo mia nonna chiamare a raccolta noi bimbi che, acquolina in bocca, non ci facevamo pregare e sospendevamo i giochi in acqua. Quando ritorno indietro nel tempo, alla mente si propongono cartoline dove il mare, sempre calmo e trasparente, contende al cielo la serenità. Avevamo poche soste obbligate: il negozietto di alimentari gestito da tre anziane sorelle che, dietro l’aspetto lugubre del lutto stretto, nascondevano un’indole gentile e premurosa, l’edicola di lamiera dove acquistare “Topolino”, la torre d’avvistamento saracena sotto la quale i pescatori vendevano il pesce ancora guizzante nelle cassette di legno, mentre la villa in stile Liberty, abbandonata da tempo, accendeva le nostre fantasie popolandole di fantasmi e misteri da svelare. Sul farsi sera, mentre i più piccoli, sazi di aria e di sole, si abbandonavano al sonno, i giovani affollavano la discoteca all’aperto “La buca del Carbonaio”. Le luci stroboscopiche, che creavano suggestivi effetti sui pini e sul mare che le si apriva davanti, coloravano i volti dei ragazzi alle prese con effimeri amori estivi. Ricordo l’invidia che mi prendeva nei confronti di mia sorella quando le veniva concesso di andarvi: individuavo in quel privilegio, l’emblema di un’adulta libertà. Si ballava al ritmo dello “Shake” e sulle canzoni di Claudio Baglioni o Raffaella Carrà. Il trenino delle Ferrovie del Gargano, chiamato affettuosamente “Caffettiera”, che ancora corre lungo la litoranea garganica, sottolineava, con i suoi fischi, il trascorrere semplice dei giorni. San Menaio ha visto tutte le età della mia vita ma quella che porto nel cuore, mi vede sulla battigia, alle prime ore del mattino, intenda a spingere il passeggino nel quale riposava mio figlio: affidavo ad ogni onda una preghiera per il suo futuro. E’ verità inconfutabile che il tempo, ammantando di bellezza i ricordi, conferisce un’aurea di irripetibile atmosfera ai luoghi del cuore, ed è per questo che non racconterò di quanto essi potrebbero offrire oggi allo sguardo di un estraneo vacanziero. I miei occhi sono ancorati ad un antico murice la cui porpora fa da contrappunto al tramonto. 

Alla spiaggia di San Francesco ci si arrivava con il filobus arancione che, dopo aver attraversato la città, arrancando e sbuffando, si fermava stremato proprio davanti all’ingresso dove spalancava finalmente le sue fauci rigurgitando una marea di gente sotto il sole infuocato. Mamme con bambini al seguito, zie, zii, cugini, nonni, nipoti e pronipoti. Famiglie intere che trasportavano borsoni pieni di secchielli, palette, racchette e palloni, sporte ricolme di timballi di pasta al forno, borse frigo pesanti di bottiglie di gazzosa e caffè freddo. Avrei scambiato volentieri uno di quei panini ripieni di cotolette impanate e fritte, che mi preparava mamma al mattino presto, con una delle appetitose focaccine tonde che vendevano al bar. La nostra cabina era la numero 58. Sempre quella, da generazioni. All’ombra della tettoia di legno c’erano già mio nonno e miei zii che si recavano in spiaggia prima di noi. Di solito giocavano a scopone scientifico. Quando ci vedevano arrivare dicevano «ecco! mo vene la cavajòla!!!». Eravamo una tribù compatta e rumorosa insieme ad altre tribù compatte e rumorose di gente come noi. Gente del popolo del Libertà e di San Girolamo. Di Japigia, Carrassi e San Pasquale. Io e i miei cugini amavamo scorrazzare lungo le passerelle di legno che portavano alla battigia, e raccogliere col retino certi vermetti lunghi che si trovavano sulla riva e che, se restavi fermo, ti venivano a pizzicare i piedi. Era tassativamente proibito farci il bagno fino alle dieci perché: a) l’acqua del mare era ancora fredda (!!!) b) dopo colazione bisognava aspettare almeno due ore prima di entrare in acqua. A volte, per ingannare il tempo, ci fermavamo a guardare i ragazzi che giocavano a tamburello sul bagnasciuga oppure andavamo al bar, dove c’era il jukebox con la musica a palla. Le ragazze, nei loro bikini sgargianti, erano sedute sul muretto e cantavano che anno è… che giorno è… questo è il tempo di vivere con te… Mi sembravano bellissime. Erano circondate da ragazzi muscolosi e con la pelle abbronzata che le guardavano, estasiati. Non vedevo l’ora di diventare grande anch’io per essere come loro. Altre volte, invece, oltrepassavamo la grata che divideva San Francesco dalla spiaggia del Trampolino per andare a vedere come prendevano il sole i ricchi. Al Trampolino conobbi una bambina di Milano. Aveva un modo di parlare, la milanese, che a me sembrava meraviglioso. Il nostro accento, al contrario, quella cadenza strascicata mia e dei miei amici, ci faceva sembrare dei buzzurri, al confronto. Un giorno che facevamo il bagno col mare agitato e le onde ci portavano su in alto, mia madre venne a cercarmi e si mise a urlare «Ijsce!!!! Mo’ proprio!!! T’jaccìd!!!». «La tua mamma?», mi chiese la milanese col suo incredulo, attonito accento milanese. «Sì», bofonchiai senza alzare lo sguardo. Se in quel momento uno tsunami fosse sopraggiunto su San Francesco alla Rena e mi avesse sommerso, risucchiandomi giù nel profondo degli abissi, non mi sarebbe importato nulla. All’ora di pranzo arrivava nonna, con un’enorme teglia di parmigiana, quella fatta con tutti crismi. La mortadella, la mozzarella, le polpettine di carne. Si mangiava, si rideva e si scambiavano battute e fette di anguria con i nostri vicini. Dopo mangiato mio nonno si metteva all’ombra della cabina 58, si copriva completamente la testa con un telo e dormiva. Io e mia sorella sgattaiolavamo verso il mare, in attesa del prossimo bagno. Se dopo colazione ci toccava aspettare due ore, dopo la parmigiana ce ne volevano almeno il doppio. È proprio lì, alla storica spiaggia di San Francesco, in quelle acque non lontane dal porto, che ho imparato a non affogare. In tutti i sensi.

Libera lo era e lo eravamo anche noi, tra una scusa e l'altra, senza telefonini e soprattutto gettoni per avvisare a casa degli acquazzoni improvvisi, che riempivano prima i pullman per Massafra e dovevi, per forza di causa maggiore, riparare improvvisando nell'attesa del ritorno pomeridiano.

Chiatona era la piazza quotidiana e per tre mesi di fila era casa; passeggiata-bagno-passeggiata e zaini, tanti e coloratissimi, acqua e asciugamano, l'essenziale, al centro di un cerchio magico, che sapeva di racconti e soprattutto di giochi tutti insieme. Ci scappava anche che ci si iniziava a fidanzare, l'età era quella - i primissimi anni Novanta ci vedevano ancora adolescenti-fanciulli in questo senso - ma eravamo più single che altro, perché la spiaggia era soprattutto una fucina di bravate da realizzare, più tardi, a casa di qualcuno. La sabbia era ovunque e c'è ancora, nel bruciante ricordo di costumi che iniziavano a scoprire e occhi attenti al fondoschiena del bel moretto coi ciclisti a righe nere e arancioni al quale, spudoratamente, eri andata a chiedere che ore fossero ben vedendo l'assenza dell'orologio al suo polso. E Chiatona, lungo "la barriera" di Lido Impero, ci ha visti per un iter scolastico intero, anche se ci differenziavano pochi anni, su una spiaggia malconcia di varia umanità e resti di serate abbandonati incautamente senza quello spirito ecologista che sarebbe venuto solo molto più tardi. Semplicemente scansavi tappi, carte e mozziconi e delimitavi con le ciabatte lo spazio per il telo puntualmente calpestato da chiunque. Col passare delle ore lo spazio vitale si riduceva alle orme dei piedi, ma ridevamo e c'eravamo gli uni per gli altri e questo bastava. Creme e protezioni nemmeno a parlarne; mezzogiorno era realmente di fuoco, ma la pelle non si lamentava e ogni rientro era una carrellata di imprecazioni e una danza sulle punte da un'ombra all'altra, scusandosi delle invasioni territoriali giustificate dalla temperatura infernale della sabbia. E poi ogni giorno arrivava inesorabilmente quell'ultimo bagno e via, di corsa, nell'acqua, "il tempo di sciacquarci" e sperare di non perdere anche l'ultimo pullman; pazienza se il costume sarebbe rimasto bagnato. Stavamo più freschi. Ci vediamo domani, ragà.

A quella spiaggia libera e anonima, splendida d'emozioni, dobbiamo il fatto di essere amici ancora oggi e, nonostante il bello e cattivo tempo, il 31 luglio festeggeremo trentadue anni da quell'incontro sulla battigia di Chiatona.

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