Greenwashing: cos’è e come difendersi - Agenda Digitale

2022-08-13 16:53:04 By :

Il greenwashing è l’ambientalismo di facciata: una strategia di comunicazione che proclama l’impegno ambientale senza alcun riscontro con la realtà. Dove nasce, come si riconosce, in che modo viene utilizzato, consigli utili

Una facciata verde per coprire le pratiche inquinanti: più aumenta la sensibilità ecologica, più avanza il greenwashing.

Infatti, virare verso la sostenibilità costa, ed è un costo di cui non tutti si fanno carico. Di contro, il riferimento alla sostenibilità ambientale ed etica diventa sempre più importante per attrarre i consumatori e aumentare il prestigio del brand.

Secondo un report della Commissione Europea, pubblicato nel 2021, nel 42% dei siti web aziendali presi in esame le affermazioni di posizionamento ecofriendly sono green claim ingannevoli e pratiche commerciali sleali.

Non a caso, la Commissione ha presentato delle proposte di aggiornamento delle direttive sulla tutela dei consumatori contro le pratiche commerciali sleali, all’interno del pacchetto sulla Circular Economy.

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Il neologismo inglese “Greenwashing” significa “ambientalismo di facciata”.

Letteralmente è una crasi, cioè una fusione, di due termini inglesi: green, ovvero verde, il colore dell’ecologismo, e washing, dal verbo “to wash”, “lavare”. A propria volta, “to wash” richiama un altro verbo inglese, “to whitewash”, che significa “imbiancare” e quindi, per estensione, “nascondere”.

In concreto, il greenwashing è una strategia comunicativa adottata da aziende, organizzazioni e istituzioni politiche: consiste nel proclamare un grande impegno ambientale e sociale senza alcun effettivo riscontro concreto.

Chi opera greenwashing enfatizza i propri sforzi (scarsi quando non inesistenti) per diminuire l’impatto ambientale delle produzioni e si promuove come ecofriendly senza però avviare davvero un effettivo processo di cambiamento in chiave sostenibile.

La differenza tra green marketing e greenwashing si fonda proprio sulla verificabilità del basso impatto ambientale dei prodotti e dei processi produttivi: un impatto reale nel caso del green marketing, fittizio (e, appunto, di sola facciata) in caso del greenwashing.

L’obiettivo del greenwashing è duplice:

Il termine “greenwashing” è stato usato per la prima volta dall’ambientalista statunitense Jay Westerverd nel 1986.

Westerverd ha denunciato come greenwashing la pratica delle catene alberghiere di disincentivare i clienti al consumo di asciugamani: a fronte di una comunicazione incentrata sull’impatto ambientale del lavaggio, l’obiettivo era la convenienza economica data dalla riduzione dei costi.

Il greenwashing si è quindi diffuso come vocabolo negli anni Novanta, a seguito delle pratiche di aziende chimiche e petrolifere americane che si promuovevano eco-friendly per nascondere i danni ambientali e provocati dalle loro attività.

A partire dagli anni Novanta, la conoscenza e consapevolezza delle problematiche ambientali sono cresciute, insieme all’orientamento dei cittadini verso scelte più ecosostenibili. In parallelo, sempre più aziende e organizzazioni politiche sono ricorse alla pratica del greenwashing.

Il greenwashing si riconosce osservando criticamente la comunicazione aziendale. In particolare, occorre fare attenzione a:

Perché un brand possa definirsi sostenibile, tutto il processo produttivo deve essere rivoluzionato e reso a basso o a zero impatto ambientale: non è sufficiente inserire, a fronte, ad esempio, di intere collezioni, solamente una quantità minima di capi a basso impatto ambientale.

Esempi di greenwashing sono reperibili già da prima che Jay Westerveld desse un nome al fenomeno e riguardano aziende operanti nei campi più disparati, dall’industria alimentare all’industria della moda, a quella automobilistica.

Il greenwashing è un fenomeno in crescita, che ha ripercussioni negative sulla tutela del consumatore, sulla transizione ecologica dei processi produttivi e sulla finanza sostenibile.

È un fenomeno politico ma anche di psicologia collettiva: non è sempre facile riconoscerlo e contrastarlo e a volte è dettato da semplice superficialità nella comunicazione. Non a caso, molti paesi, tra cui il Regno Unito, hanno stilato vere e proprie guide per la comunicazione che aiutino le aziende a evitare il greenwashing involontario.

Diversi sono gli approcci dei vari Stati rispetto a questa pratica: negli Stati Uniti è allo studio una taskforce per monitorare gli investimenti e la politica sostenibile delle aziende; in Francia sono state introdotte severe sanzioni economiche e multe fino all’80% del costo della campagna pubblicitaria sotto esame.

In Italia manca una legislatura organica e specifica per contrastare il greenwashing che, di fatto, è considerato pubblicità ingannevole, in capo all’Antitrust fino al 2014.

Nel 2014 è stato introdotto l’articolo 12 del Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale, che ha stabilito come la vigilanza spetti all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Il compito dell’Autorità è di vigilare e reprimere la pubblicità ingannevole e sanzionare le aziende che praticano il greenwashing. Le sanzioni economiche possono arrivare a cinque milioni di euro.

L’articolo 12 ha anche imposto direttive precise per la comunicazione e il marketing. Ogni informazione data deve:

Tra gli altri soggetti che in Italia controllano la veridicità e attendibilità della comunicazione delle aziende, ci sono anche:

Un altro indicatore che dimostra la reale sostenibilità delle aziende è la presenza di certificazioni ambientali come:

– standard EMAS, che prevede, a livello europeo, la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale”,

– ISO 140001, riferimento internazionale dei requisiti minimi per ottenere una certificazione,

– GRS, Global Recycled Standard, sui materiali riciclati.

Oltre alle tutele delle autorità, il modo principale e più immediato per difendersi dal greenwashing è diventare consumatori consapevoli e adottare strategie mirate per scegliere aziende realmente ecosostenibili.

di Riccardo Berti e Franco Zumerle

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