R. D. del Congo, garantiamo l’igiene mestruale per le donne sfollate

2022-09-24 16:45:40 By : Mr. Hui Jue

L’accesso all’igiene mestruale per donne e ragazze è essenziale per evitare complicazioni sanitarie e allo stesso tempo per preservare la loro dignità. In situazioni di emergenza o di crisi prolungata, però, il diritto all’igiene mestruale spesso viene meno. E questo non fa che aumentare la vulnerabilità delle donne, in particolare le difficoltà nello svolgere le attività quotidiane durante il periodo mestruale. Nella Repubblica Democratica del Congo, nella provincia del Nord Kivu, le molteplici violazioni dei diritti umani perpetrate a danno della comunità hanno costretto tante persone ad abbandonare le loro terre di origine. Questa situazione di emergenza, di perdita di risorse, ha colpito primariamente le persone più vulnerabili, e in particolar modo donne e ragazze, che hanno così perso la possibilità di accedere all’igiene mestruale.

Visibile era la preoccupazione sul volto delle tante donne che abbiamo intervistato, per via della mancata disponibilità di kit igienici adeguati. “Sono una ragazza sfollata del campo di Mungote, a Kitshanga, e per molto tempo i miei genitori non hanno avuto la possibilità di comprare assorbenti per me. Fino a quando non è intervenuta INTERSOS” ha affermato una delle ragazze coinvolte nel progetto. Grazie alla collaborazione con UNHCR, infatti, INTERSOS ha avviato il progetto “Heshima”, volto alla promozione dell’igiene e all’autoproduzione di assorbenti da parte delle donne sfollate nell’area di Kitshanga. Il progetto ha avuto un impatto molto positivo sulla popolazione, sia per l’incremento generale dell’accesso all’igiene, sia per lo sviluppo di nuove opportunità di impiego per le donne del posto, tramite la vendita locale degli assorbenti autoprodotti.

A Kitshanga e nei due siti per sfollati interni di Mungote e di Kahele, in passato erano già state fatte distribuzioni di MakaPads, assorbenti biodegradabili realizzati con fibre di papiro e carta riciclata, ma senza riscuotere molto successo, per via della scarsa qualità. Per questo si era deciso di avviare un confronto con donne e ragazze, per trovare delle soluzioni alternative, possibilmente locali, che alla fine hanno portato grandi benefici: le donne hanno iniziato a seguire anche corsi per la realizzazione di asciugamani di stoffa e sapone.

Grazie all’uso di assorbenti lavabili e resistenti e alla produzione di sapone, la contrazione di infezioni è molto diminuita. E molte donne hanno anche avuto la possibilità di andare a scuola o a lavoro durante il periodo mestruale grazie alla serenità legata ai nuovi assorbenti, cosa che prima era praticamente impossibile. Il miglioramento delle condizioni di salute e delle attività quotidiane ha reso le donne che abbiamo aiutato più serene e più forti. Garantire l’accesso ai diritti vuol dire essere parte di quel processo che restituisce anche dignità e sicurezza.

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Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.

Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.

Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.

Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.